E POI SI FINISCE SEMPRE A PARLARE DELL’ORTO

di icecamp

Il tassista, di tanto in tanto, mi getta un’occhiata dallo specchietto retrovisore. Sul sedile davanti c’è un cane, un grosso pastore tedesco con la lingua bagnata e penzolante: non riesco a vedere se è legato oppure no. Fatto sta che non la smette di fissarmi. Così chiudo gli occhi e, appena li riapro, siamo davanti all’ospedale: il tassista è girato verso di me e mi sta guardando. Mi fa pagare il doppio della tariffa perché gli ho vomitato in macchina, ma non ha l’aria di uno che è davvero arrabbiato. Sembra sorpreso, piuttosto, per l’irresponsabilità del mio comportamento.
[…] La tizia che mi aiuta a spogliarmi, nell’ambulatorio illuminato dai neon, ha i capelli castani, lucenti, e gli occhi marroni. Ci mette tutta la sua buona volontà per darmi una mano. Io sono a torso nudo e sto per togliermi i pantaloni. La mamma si sarà sentita come me ora, mentre moriva sola in quel campo di lava, tra le braccia di sconosciuti? In ogni caso per un sacco di persone sulla faccia della terra il giorno della mia morte sarà un giorno di gioia: prima che il sole tramonti, in tanti saranno nati al mio posto, e tanti matrimoni saranno stati celebrati.
Non che sia chissà cosa, morire. Quasi tutti i figli e le figlie minori del mondo se ne sono andati prima di me. Sicuro, un padre anziano accuserà il colpo, un giovane ritardato si costruirà un nuovo sistema che non contempli la presenza del fratello, e una bambina che non parla ancora, e che è troppo piccola per trascorrere la notte a casa del papà, non lo conoscerà mai. Tuttavia non posso neanche dire di non avere rimpianti. Per esempio, avrei voluto fare l’amore più spesso e aver piantato le talee nella terra.

Auður Ava Ólafsdóttir

Congestione, vomitare, piantare le talee nella terra. Ok, mettiamo insieme i pezzi. Me lo ricordo come fosse ieri.
Finiamo cena e siamo già pieni che lo stomaco ci sta per scoppiare. Torniamo in albergo e subito tutti si rintanano in camera perché fare due passi lungo la spiaggia è, a volte, chiedere troppo.
Rimango a chiacchierare con Alessandro che mi confessa tra una cosa e l’altra che mi segue su twitter. Strano sentirselo dire così spudoratamente e forse banale sentirsi onorati ma in quel momento ricordo un attimo di leggerezza e felicità. Io e Ale lavoravamo sotto lo stesso tetto da ormai un anno e mai, prima d’ora, ci eravamo cagati più di tanto. Poi è capitata questa cosa di fargli da tecnico audio a Jesolo e successe quella cosa che può suonare come il guscio della noce che improvvisamente si frantuma. «Quasi quasi mi faccio un amaro. Andrei al chiosco da Max. Ti va?»
E così ci ritroviamo seduti su due sgabelli alti, appoggiati coi gomiti al bancone, in pantaloncini e infradito, a chiacchierare. Tra una parola e l’altra Ale viene circondato da ragazzine che vogliono scattare delle foto e mi soffermo ammirato ad osservare come lui sia disponibile nel modo più naturale possibile, non reagisca mai negativamente e soprattutto non perda mai il filo del nostro discorso. Forse, dopo un po’ di tempo, in questi casi, ci si fa il callo.
«Hai mai provato lo Jägerbomb?» mi chiede. Mentre mi spiega che l’ha assaggiato a Tokyo, e che i Giapponesi si ammazzano di quella roba fino a vedere i santi scesi in terra, la barista da dietro al bancone ci ascolta attenta. «Per piacere, mi puoi dare tre bicchieri vuoti, tre redbull e tre jägermeister? Lo preparo io per tutti!» Così io, Ale e la nostra nuova amica brindiamo e buttiamo giù. Cin cin, alla salute! Nel frattempo dall’hotel ci raggiunge Lorenzo e quando accenniamo a tre birre medie, Max, il proprietario di quel chioschetto sul lungomare, ci mostra una botte di Augustiner che ha ordinato apposta per noi direttamente da Monaco di Baviera. «Non vi potete rifiutare!» ci dice minaccioso.
Ciò che ricordo da lì in poi è che ce ne stavamo in quattro: io, Ale, Lore e Max, dentro al chiosco chiuso ormai da ore, continuando a spillare birra e a chiacchierare di qualsiasi cosa. Che poi, se a quel punto non hai già sboccato, finisci matematicamente a parlare dell’orto, e questo è un concetto strano per il mondo ma importante per la vita di un uomo. Calatevi nella parte, quindici litri di birra divisa per quattro può rendere solo l’idea. C’è un punto della propria vita in cui l’uomo decide che coltivare il suo orticello domestico, anche in piena Milano, è il modo per soddisfare appieno il concetto di creazione e di creato. Ora non me ne starò qui a spiegarvi tutte le tecniche per far nascere dei buoni pomodorini in un vasetto sul balcone ma sappiate che in quello stato psicofisico descrivere il modo in cui frutta una piantina di pomodori è un po’ come assistere di nuovo al big bang.
Ore quattro del mattino. Dalla botte non esce più una goccia di birra. Forse è ora di andare a dormire. Ci trasciniamo in hotel e ci congediamo con un buonanotte che dal suono emesso può sembrare aramaico antico. Entro in camera, mi sfilo la maglietta, accendo la tele e faccio l’unica cosa che non avrei dovuto fare: sdraiarmi sul letto.
Otto ore dopo, e dopo aver vomitato l’anima, siamo in studio pronti per andare in onda, disidratati e immobili nelle nostre posizioni: io sono sdraiato su un divano di fianco al mixer, Ale fissa continuamente la gazzetta dello sport seduto sul suo sgabello davanti al microfono, Lorenzo è seduto fuori, a bordo palco, con lo sguardo rivolto verso la piscina a onde.
Quell’estate è ormai lontana, i ricordi di quella sera si perdono in risate tra amici. Ale in quei giorni stava ultimando uno dei suoi romanzi, che poi ovviamente comprai e divorai in pochi giorni. Fa strano pensare che certi momenti vissuti possano finire tra le righe di un racconto semi-inventato e invece a un certo punto leggi proprio quella cosa che ti strappa un sorriso e ti riporta indietro in un attimo. E io a distanza di anni sto ancora pensando allo jäger annegato nella redbull, alla birra bavarese e ai pomodorini coltivati sul balcone.

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