LUCI DELLA RIBALTA

di icecamp

Capita che arrivino amici da lontano, capita che mi scrivano messaggi del tipo “mi raggiungi?”, capita che si mangia qualcosa al volo insieme e si finisce a passeggiare in una giornata di sole atipica di febbraio. E mi accorgo immediatamente che c’è qualcosa che non va, non in me, non in chi accompagno ma proprio nelle strade che percorriamo.
La città è gonfia, più rumorosa, quasi senza quelle caratteristiche miste di caos e pace che la contraddistinguono. Il popolo è a briglie sciolte, scende in strada anche senza un motivo per farlo. E’ l’effetto fashion week.
Sì che io di moda non ne capisco niente. Sì che, anzi, non me ne intendo proprio. Sì che questi miei argomenti di solito parlano d’altro ma parlano anche di città. Della mia, città, o meglio di quella che mi ha adottato senza pensarci due volte, già da molti anni. Eppure ogni volta mi trovo impreparato ad affrontarla in questa veste, come fosse sempre il primo giorno di lavoro in cui non sai se portarti il pranzo riscaldato da casa o tentare nuove conoscenze con i colleghi e imbucarti a pranzo con loro. Invadente, forse, come le mandrie di genti giù per strada.
Penso sia un vizio di questa città, quella di dare un tacito consenso a tutto ciò che la invade. Un vizio come di una femmina indifferente a ciò che le accade intorno. E in una donna l’indifferenza, almeno per me che sono uomo, dà fastidio e fa storcere il naso. Non me l’aspetto mai, l’indifferenza, perché mai vorrei giudicare stronza una donna, perché forse ho paura di questo suo fascino che mi ucciderebbe e più stronza è, si sa, più potrebbe attrarmi.
Milano è stronza, di per sé, ma è maledettamente affascinante. Ho imparato a camminare nella folla, driblarla per le strade principali e infilarmi nelle vie che profumano di storia, quelle sempre vuote in cui si riesce a percepire ancora il rumore del vento. Torno a casa che è ancora giorno, il cielo pare mi stia facendo un favore in questo weekend e appare azzurro e luminoso. Mi siedo davanti al computer, porto a termine dei lavori e ho ancora in testa il rumore innaturale di questa città, lo schiamazzo continuo di questi manifestanti della moda che impallano le vetrine dei negozi di scarpe e annusano ogni boccetta di profumo esposta in boutique con fare interessato ma col portafogli vuoto.
Lavo i piatti, quasi assopito dal rumore dell’acqua che sbatte sulle stoviglie sporche mentre ascolto random gli U2 e guardo fuori dalla finestra. Man mano si accendono le luci in strada e ricoprono le facciate colorate dei palazzi intorno di quel velo giallastro che fa da lenzuolo a Milano, la notte, quasi come le lucciole che illuminano il cielo nel testo di Bono che canta in sottofondo. Asciugo le mani mentre piatti e posate finiscono di gocciolare, indosso il giubbetto di pelle nera ed esco a fare due passi. Ne approfitto mentre tutti lì fuori sono rinchiusi ai private party, a guardare le sfilate e a sentirsi nuovamente tredicenni al concerto dei Backstreet Boys. E mentre, tra le strade vuote, infilo i piedi tra un sampietrino e l’altro, tra i binari del tram, me la canticchio in testa, l’ultima della playlist. Oh you look so beautiful tonight. In the city of blinding lights.

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