IL TREDICESIMO PIANO
Venerdì mattina, appena timbrato il cartellino e spedito sul tetto come un pacco postale a fare delle modifiche audio vicino alle antenne delle radio.
Ho ancora sonno, seppure sia sveglio già da due ore o poco più, ma in questi ultimi due giorni, da quando sono rientrato da Roma, sto veramente arrancando come se fossi tornato da una missione di soccorso sull’Himalaya passata ad arrampicarmi in mezzo ai ghiacciai. Ho gli occhiali da sole a coprire le occhiaie e quell’orzaiolo che ormai sta diventando il mio migliore amico, una sciarpetta legata larga al collo e il giubbetto di pelle sopra la maglietta a maniche corte. Ritornato a Milano, dopo giorni di pioggia e freddo, ho anche ritrovato un sole timido che prova a fare primavera. E questo è strano per questo luogo in questa stagione.
Ogni volta che salgo quassù vuol dire che c’è un problema da risolvere o una miglioria da apportare, cose che per i comuni mortali che ascoltano la radio non cambiano di certo la vita o le orecchie ma ai grandi capi di certo le fanno fischiare meno, soprattutto la notte. Ogni volta che salgo quassù, per me, però vuol dire affacciarsi alla ringhiera della balconata, sporgersi con la testa e beccarsi l’aria fresca in faccia, lanciare lo sguardo il più lontano possibile e sentirsi un po’ sul tetto del mondo.
Il tredicesimo piano non è accessibile a tutti, è uno di quei posti per i soli addetti ai lavori anche perché è abbastanza rischioso, un rischio che io però corro ogni volta che ne ho la possibilità, perché dalla prima volta in cui mi trascinarono quassù a visionare le macchine audio e i ponti e le antenne, mi innamorai di quelle viste miste di case centenarie, grattacieli di vetro nuovi di pacca, palazzi, monumenti e, dietro a tutto, le montagne. Perché sì, quando il cielo a Milano è di quell’azzurro tenue che sembra bianco che non esiste, dietro ai palazzi di vetro e alle gru dei cantieri, spuntano le vette nere dei monti pezzate di neve.
Mi soffermo a guardare il Duomo oggi, in centro, con dietro il profilo nascosto di Torre Velasca ma il mio sguardo cade un po’ più in basso a destra, poco prima della cupola di vetro di Galleria Vittorio Emanuele che riflette ai raggi del sole: è l’osservatorio astronomico. Non l’ho mai visitato, in tutti questi anni, perché ho sempre pensato di andarci con qualcuno per un’occasione speciale e nell’attesa ne sono sempre rimasto affascinato. E’ un palazzone in mezzo al quartiere degli artisti e l’idea della scienza che osserva il cielo e la natura dal basso mi ha sempre dato quella forte impressione di un tocco di tonalità moderne dentro la città antica. Con questo cielo finalmente limpido, penso, chissà come dev’essere andare a vedere bene le stelle, e nel frattempo fisso due nuvole allungate che striano questo cielo di giorno. So che tra quella miriade di stelle una porta un nome che conosco e anche se non so di preciso dove si trovi, in mezzo a tutte quelle altre, credo che sapere sia sempre lì e che io possa chiamarla e raccontarle qualcosa di me mi accende un vanto e un’emozione dentro che non si riesce a spiegare.
Inizio ad operare in mezzo ai cavi e alle lucette delle apparecchiature, lasciando la porta aperta della sala ponti che dà sulla balconata sospesa nel vuoto. Do le spalle alla ringhiera, sento che il sole mi scalda la maglietta e la pelle sulla schiena inizia a bruciare, come fossi d’estate sdraiato nudo sulla spiaggia, addormentato.
Chiudo per un attimo gli occhi e lo sento, il rumore delle onde, quelle meccaniche di città. Quelle che non si fermano mai come le rotative di un giornale sempre in stampa e che mi affascinano al solo percepirne il rumore lontano. Le stesse che ho provato a raccontare qualche giorno fa, in una passeggiata sotto la pioggia, in un’altra città lontana da casa, mentre ricevevo sguardi sbalorditi che confessavano in silenzio che sì, ognuno è psicopatico a modo suo.
Accendo la radio, per sentire che sia tutto ok e che non stia staccando il cavo sbagliato, che la farebbe star zitta. D’improvviso parte un riff di chitarra che riconoscerei anche da sordo: blocco le mani prima che combinino davvero il danno e interrompano tutto questo. Parte quasi indifferente, Wish You Were Here, e poi entra in vena e si mischia col sangue e c’è poco da fare.
Il pensiero vola, al di là della ringhiera, e lì, dietro le mie spalle, il sole sembra tramontare nel cielo graffiato da nuvole rosse e diventa sera, si trasforma in musica e poi diventa notte. E pensare invece che qui, adesso, è solo mattina.
Soundtrack: Pink Floyd – Wish You Were Here (David Gilmour Unplugged)