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EN LA ISLA

Casa Le Moult. Eccomi a Formentera per finire questo romanzo. […]
Ascolto il rumore del mare. Rallento finalmente. La velocità impedisce di essere se stessi. Qui le giornate hanno una durata leggibile nel cielo. La mia vita parigina non ha cielo. Ideare uno slogan,  faxare un articolo, rispondere al telefono, veloce, scappare di riunione in riunione, mangiare un boccone di corsa, in fretta, in fretta,  filare in scooter per arrivare in ritardo a un cocktail. La mia esistenza assurda esigeva una frenata. Concentrarsi. Non fare che una cosa alla volta. Accarezzare la bellezza del silenzio. Godersi la lentezza. Ascoltare il profumo dei colori. Tutte cose che il mondo vuole proibirci. 
[…]
Formentera, piccola isola… Satellite di Ibiza nella costellazione delle Baleari. Formentera è la Corsica senza le bombe, Ibiza senza i locali, Moustique senza Mick Jagger, Capri senza Hervé Vilard, i Paesi Bassi senza la pioggia.
Sole bianco. Paseggiata in Vespa. Calore e polvere. Vegetazione secca. Mare turchese. Profumo di pini. Canto dei grilli. Lucertole impaurite. Pecore che fanno bèèè.
“Bè, cosa?” rispondo io.
Sole rosso. Gambas a la plancia. Vamos a la playa. Stelle di cielo. Gin con limón. Cercavo la quiete, è qui, dove fa troppo caldo per scrivere frasi lunghe. Si può riposare in pace anche da vivi. Il mare è colmo d’acqua. Il cielo si muove in continuazione. Le stelle filano. Respirare aria dovrebbe essere sempre un’occupazione a tempo pieno.

Frédéric Beigbeder

Strade sulla terra polverosa che non conosco in cui potei perdermi solo a pensarci. Strade nel cielo che non me ne vengono nemmeno le parole ma è come se le conoscessi da una vita al solo alzare lo sguardo per cercare di capire dove vanno a finire.
La isla mi dà energie così come poi me le succhia. Tutto ciò che mi regala se lo riporta via, può sembrare una triste condizione ma in verità è una meraviglia senza impegno: un mix continuo di emozioni che viene digerito non appena ingoiato, senza passare per lo stomaco. Sono queste le sensazioni che mi lasciano senza fiato e allo stesso tempo mi rilassano totalmente.
Dire non andiamo più via di qua sarebbe ipocrita e patetico ché, come tutte le abitudini poi, si finisce per odiarle, le cose. E io invece ho un sano bisogno di amare, adesso. Forse di amare più me che un contesto grande come la isla. Ma nello stesso tempo in cui lo nego io lo so già di esserne perdutamente innamorato, di questo posto, di questi panorami e scorci di terra e cielo diversi dal resto del mondo, che mi ricordano quasi casa ma hanno allo stesso tempo un sapore diverso. E mentre cerco di dire di no, che ora andiamo avanti senza guardarci indietro, potrei benissimo confessare di esserci rimasto pesantemente sotto, a questa isla, in un modo strano, come quando ci si innamora dopo un rapporto occasionale. Sconosciuta è la isla, bella e seducente, una delle donne più affascinanti che abbia mai scoperto e violato. Sorprendenti i luoghi, i personaggi che la popolano e gli amici con cui divoro queste briciole sparse sulla tavola come fossimo affamati di vita.
Me ne sto seduto fuori, in mezzo alla strada, sotto un ombrellone, a due tavolini accostati che fanno un tavolino per quattro. Occupo la mia metà parte ma nessuna delle ragazze che servono in sala, anche quando il bar si riempie di affamati per la colazione, mi chiede di spostarmi. Loro passano, mi guardano, aspettano che io ricambi, mi sorridono e passano oltre. «Hola, ¿qué tal? – Buongiorno, volete ordinare?» chiedono in giro. A volte passandomi dietro mi sfiorano poggiandomi le mani sulle spalle. Mi piace essere stuzzicato e accarezzato da mani sconosciute, e sono certo che loro questo non lo sanno ancora.
Questa mattina sono uscito presto di casa, con due ore di sonno sulle spalle, ho chiuso la valigia e lasciata insieme alle altre pronte per partire. Ho abbandonato tutti mentre dormivano, preso il motorino e sfrecciato verso Sant Francesc per fare l’ultima colazione dal Losio. È naturale per me avere un posto in ogni parte del mondo in cui mi ritrovo, un posto in cui mi senta libero, che mi faccia sentire davvero me stesso. A Formentera ne ho trovati due: uno totalmente selvaggio, al faro di Cap de Barbaria a strapiombo sul mare, e uno più conviviale, immerso nel paseo del capoluogo della isla: il bar di questo personaggio singolare che ai tempi fu manager di Lorenzo (Jovanotti ndr) ma fu anche tante altre cose e tante altre persone. Se sei sulla isla non puoi non innamorarti di questo luogo e non puoi non innamorarti del Losio che gira tra i tavoli e sta dietro al bancone.
Leggo, mangio yogurt, toast e divoro frutta e centrifughe. Distendo le gambe sotto il tavolino alla francese e prendo appunti guardandomi attorno. La strada è totalmente bianca, sia per terra che sulle pareti degli edifici bassi, il sole che è quasi in centro riflette ovunque e acceca come fossero dieci fari da posa accesi in studio. Godo del venticello che arriva sul collo e che non mi fa pensare al fatto che mi stia scottando la pelle, ancora una volta. Silenzio tutto attorno, si sente solo il brusio in varie lingue impastate della gente che mi mangia attorno. Questo posto fa fermare il tempo nella mia mente e anche l’orologio di uno dei due cellulari poggiati sul tavolo, l’altro mi ricorda a un certo punto che devo andare al porto, prendere un traghetto e fare quello che abbandona.
Mi alzo, pago, lascio tutto il resto nel barattolo delle mance, senza guardare nemmeno quanto sia. Il Losio mi fulmina con lo sguardo e mi insulta. «Che cazzo fai? Sei matto? Riprendili subito!». Mentre scoppia a ridere viene ad abbracciarmi e gli dico la solita frase fatta del tipo non facciamo quelli che si perdono di vista.
«Mi sa che ci vediamo in radio da voi, che tanto L, quell’altro, ha già messo una taglia sulla mia testa» mi risponde ironicamente.
Abbraccio i ragazzi, che promettono di venirci a trovare nella città, appena rientrano dal paradiso. Esco fuori con lei, ché ho voglia di un saluto diverso, e non posso non ammettere di aver perso un po’ la testa per quegli occhi e per tutto quanto.
Si siede sul divano, mentre le sto in piedi davanti, questa posizione mi imbarazza tanto quanto mi fa pensare oltre i limiti di quel che sta accadendo. Lei tira fuori la penna e scrive qualcosa che mi piazza in mano. Poi ripone tutto nella tasca del grembiule e mi abbraccia mentre mi bacia, e sorride.
Vado via ché non amo gli addii, cammino per la piazza con la chiesetta bianca facendo ruotare sul dito il portachiavi della radio con la chiave del motorino. Mi tocco le tasche per essere certo di aver preso tutto prima della partenza. Tiro fuori il portafogli e mi fermo a sorridere un secondo, in piedi, con il casco appena allacciato sotto il mento. Di una cosa mi rendo conto e rimango affascinato totalmente, mentre guardo il biglietto piegato insieme allo scontrino tra le dita: le ragazze belle e con gli occhi chiari scrivono ancora il numero di telefono su un fogliettino di carta.

Big Store Formentera - Losio

DONNE CON LE SPINE

La prova che la nostra generazione è mal messa è il successo delle trasmissioni che parlano di sesso alla radio e alla tv, e l’infima percentuale di ragazzi che usano il preservativo per fare l’amore. Questo attesta che sono incapaci di parlarne normalmente. E se i giovani sono ridotti così, figuriamoci i giovani borghesi… Una catastrofe.
Alice non ha frequentato ambienti marci. Lei considera il sesso non come un obbligo, ma come un gioco di cui conviene scoprire le regole prima, eventualmente, di modificarle. Non ha nessun tabù, colleziona i fantasmi, vuole esplorare tutto. Con lei, ho recuperato trent’anni di ritardo. Mi ha insegnato ad accarezzare. Le donne, bisogna sfiorarle con la punta delle dita e della lingua; come avrei potuto indovinarlo se nessuno me lo avesse detto? Ho scoperto che si poteva fare l’amore in un sacco di posti (un parcheggio, un ascensore, i gabinetti di un locale notturno, i gabinetti di un treno, i gabinetti di un aereo, e perfino fuori dai gabinetti, sull’erba, in acqua, al sole) con ogni sorta di accessori (sado, maso, frutta, verdura) e in ogni sorta di posizione (sottosopra, soprasotto, scambio dei ruoli, legato, legante, flagellante di Siviglia, giardiniere dei Supplizi, distributore di bevande, pompa di benzina, mangiatrice di serpenti, domina demoniaca, 69 e altri numeri acrobatici). Per lei sono diventato più che etero, omo o bisessuale: sono diventato omnisessuale. Perché limitarsi?
Voglio scopare animali, insetti, fiori, alghe, soprammobili, mobili, stelle, tutto quello che ci sta. Ho perfino scoperto di avere una sorprendente capacità d’inventare le storie più incredibili solo per sussurrargliele nell’orecchio durante l’atto. Un giorno, ne pubblicherò una raccolta che schioccherà chi non mi conosce bene. In realtà sono diventato un vero e proprio maniaco perverso polimorfo, in poche parole, uno che se la gode. Non vedo perché solo i vecchi avrebbero diritto a essere libidinosi.
Riassumendo, se una storia di sesso può diventare una storia d’amore, il contrario è rarissimo.

Frédéric Beigbeder

«Le ragazze con cui esco hanno tutte i mostri sotto il letto»
«Sì… e un orsetto di peluche sopra per far sembrare la caverna del drago un castello di principessa!»
«Questa citazione non la conosco… ma mi piace»
«L’ho appena inventata. Sono o no un cantastorie?»
«Eh sì, lo sei. Ma solo se non te ne vanti. Io ho il panda come peluche.»

E poi finisce così: complimento più spina. Subito. Sul dito. Ahi! E la spina guarda caso me la becco sempre io, che prima sono azzeccante, poi un cantastorie, poi nerd, superquark, milanese, hipster, ancora più hipster. Più che il dolore e il fastidio della spina a me il pungente fa sorridere. Sono gusti. C’è a chi piace il piccante, c’è a chi piace il pungente.
La storia delle donne che sono come i fiori, le piante e tutto il resto infatti è vera, mica me l’ero inventata. E quando le donne sono cactus c’è poco da fare. Forse provare ad accorgersene e basta.
Ci sono quelle più antiche, dal fusto poco succulento e legnoso, dalle foglie lunghe e attraenti, ma che in caso di siccità improvvisa si afflosciano subito e muoiono. Ci sono le più giovani, dal corpo appiattito e spine speciali quasi di forma sferica e poi quelle dal fusto corto, dalle foglie piccole e dai fiori solitari.
In generale le donne cactus prediligono terreni sciolti, aerati e leggeri. Le specie forestali amano i terricci umidi pieni di insenttini e vermetti, mentre le restanti gradiscono una componente dominante di natura minerale, il cosiddetto uomo-roccia o coso-duro, fate voi.
Insomma, non sembrerebbe ma ne siamo circondati. Un po’ come nella teoria della conquista da parte degli alieni o dell’invasione dei dinosauri riemersi dai fondali oceanici, solo che, in questo caso, ne siamo già consapevolmente soggetti e scioccamente attratti.
Alcuni lo chiamano magnetismo, chimica di coppia, attrazione fatale, eterosessualità. In fondo è banalmente il cosiddetto istinto primitivo, come quello di battere la roccia fino a farla rompere e cadere sui piedi, per poi bestemmiare. Te la cerchi e te la prendi. Causa ed effetto.
Importante che la spina, almeno in quei momenti lì (quelli da imboscamento selvaggio), non finisca sul fianco o, peggio, da qualche altra parte.

Cactus-Feltro

UN GUSTO UN PO’ AMARO (DI COSE PERDUTE)

Ginevra fumò la sua sigaretta, fuori. Pensò di essere stata stupida a uscire solo con il camice, avrebbe dovuto mettersi il cappotto. Le nebbie non se n’erano ancora andate. Eppure, ormai ci aveva fatto l’abitudine, a guidare lungo quella strada fatta di grigio compatto, durante l’inverno, e a vedere quelle luci sbiadite, ogni tanto, le luci degli altri.
«Io suono il basso – le aveva detto Greg. – Ho anche un gruppo, che si chiama Ice and Lies. In realtà ‘sto nome qua è venuto fuori a caso. Perché non avevamo un nome. Poi una volta eravamo a un concerto e dovevano presentarci. E, a caso, il mio chitarrista ha detto: ci chiamiamo Ice and Lies. Ghiaccio e bugie. Ci sembrava una figata, come nome».
«Che genere fate?» gli aveva chiesto lei.
«Mah, così… – aveva risposto lui – Diciamo rock».
«Diciamo rock…»
«E tu – le ha detto lui – mica fai solo questo nella vita, no? Cioè voglio dire, mi sembri una tipa un po’ diversa…»
«Diversa…»
«Non si è mai vista un’infermiera con il piercing alla lingua».
«E tu cosa ne sai del mio piercing alla lingua?»
«Non è che se un mese fa stavo morendo buttandomi dal balcone di casa, allora non mi accorgo che la mia infermiera ha il piercing alla lingua…»
«In effetti…»
«Avvicinati…»
«…»
«Di più…»
«…»
«…»
«Non avevi mai baciato nessuno con il piercing alla lingua?»

Elena Chiara Mitrani

Gli incontri, le cose nuove, le chiacchiere di circostanza per capire quanta timidezza c’è dall’altra parte del vetro, che poi dall’altra parte del vetro è una frase tipica di quelli che fanno la radio davanti al microfono che indicano noi che facciamo la radio in mezzo ai bottoni, le lucine e le ragazze che corrono con in mano fogli di carta stampati pieni zeppi di messaggi e notizie strane.
Fin quanto è alto quest’ostacolo che ci separa, due a due, da un contatto diretto, quello fatto di dita che si scoprono le une contro le altre che sembra E.T.-telefono-casa, di sguardi che si puntano come per attaccarsi da un momento all’altro e odori che si mixano come nel suono del miglior disco di sempre?
In questi giorni la radio è deserta, ci siamo noi, gli irriducibili agostini (che non c’entra niente con i De che pubblicano le robe in fascicoli poi in vendita in edicola), le stesse facce che si contano sulle dita delle mani che si alternano tra corridoi, pause pranzo e studi della diretta. Arrivo al mattino e trovo quella quiete che solo pochi giorni ogni anno esiste da queste parti, vago per gli uffici chiusi, dormo sulle panchine, mi chiudo in uno studio vuoto e sparo a palla la mia musica, la radio che vorrei. Mi sembra quasi di fare peccato ma si sa che i sogni peccato non lo siano mai.
Fuori, la città è una giungla in cui gli animali sono fuggiti, quasi come per farlo apposta a lasciarmi da solo, fino alla fine. Sole, pioggia, cieli azzurri, bianchi e neri si alternano sulla mia testa e non lo capiscono che tanto a me l’estate fresca e piovosa piace e non sono come tutti quelli che perdono tempo a lamentarsi di queste stagioni che perdono colpi e pezzi invece che prendere, partire e andare verso i tropici afosi.
Che poi non è che mancano realmente dei pezzi in questa Milano apocalittica di fin’estate. Non è che mancano sale e aceto in questa insalata di pomodori verdi fritti che è la mia vita in questo periodo.
È che forse c’è voglia di una spinta, o di un traino, di quelle che svoltano le giornate troppo uguali tra di loro. Di qualcosa che faccia girare la testa come quando da piccoli veniva il sangue al naso per i troppi sbalzi di temperatura.
Sembra più una voglia strana di abbracci, di quelli che te ne stai lì a percepirli fino in fondo che c’è dell’altro, in quell’incastro, oltre a te. Che sono pezzi di carne che si sfregano come pietruzze insignificanti che però poi fanno scintille che accendono un fuoco.
È che ho voglia di baci, di quelli profondi, di quelli che lo senti il ferro in bocca, sulla lingua e in mezzo ai denti, di quelli che ci mangi a colazione, pranzo e cena senza le pause e le pennichelle in mezzo, di quelli che quando hai finito sei pieno più che dopo un pranzo di Natale. È che ho voglia di baci, di quelli neri e di quelli colorati, di quelli che hanno tutti i sapori di tutti i colori, indelebili come la vernice. Di quelli dei giorni anche più pigri, che lasciano in bocca il gusto del sale.

Soundtrack: Gino Paoli – Sapore di sale

People at The color Run event in Milan, Italy

Photo © Tixtis | Color Run in Milan | Dreamstime.com

STASERA MANGIO SCONDITO

Se ti chiedessi sull’arte probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti… Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c’è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto.. mai visto.
Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia eh? Ancora una volta sulla breccia cari amici?? …ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l’ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto.
Se ti chiedessi sull’amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile… non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell’inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d’ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine “orario delle visite” non si applica a te. Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami qualcosa più di te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto.
Io ti guardo e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura. Ma sei un genio Will, chi lo nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo? Sei orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? 
Personalmente me ne strafrego di tutto questo, perché, sai una cosa, non c’è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo, vero Campione?… Sei terrorizzato da quello che diresti.
A te la mossa Capo.

Robin Williams (Will Hunting)

«Sono stato bravo a recitare lo spettacolo della mia vita?» diceva il teatrante alla fine dell’opera, a scena aperta, quasi volesse come esorcizzare la morte del personaggio e la magica apparizione della persona. Quella vera. L’involucro smagrito e sudato di cotanta emozione appena vissuta.
Quando certi personaggi diventano parte della tua vita, che tutti i giorni ti si intrufolano in casa per regalarti un sorriso o un momento di riflessione, quando è parte di queste piccole cose quotidiane che ti generano emozioni dentro senza chiedere permesso né bussare, allora è l’involucro di questi personaggi stessi che diventa un po’ come l’amico ritrovato dopo tempo che sei felice di rivederlo anche se non lo esterni. Come se la sua mancanza fosse durata meno di qualche ora come quando s’era ragazzini e si giocava insieme in cortile prima e dopo mangiato, di giorno e di notte. Diventa il vicino di casa che saluti incrociandolo sulle scale senza nemmeno darne peso ma che ti citofona a mezzanotte per chiederti se hai delle cartine ché è disperato e le ha finite e ha due amiche in casa che hanno portato da bere. Lui, il vicino che ti presta il sale quando il disperato invece sei tu e stai per buttare all’aria la migliore cenetta romantica del secolo, con lei che magari aspetta, di là, davanti al mezzo bicchiere di bianco.
Ecco. non c’è rumore sul pianerottolo, questa sera. Non c’è festa, non servono cartine e nessuno ha portato da bere.
Non rido, non applaudo, non chiudo più il sipario ché non c’è fretta di far sgomberare la platea che si deve dormire ché domani si va a lavoro presto a tirare su le tende.
Stasera niente applausi a scena aperta. Non ho fame, non ho sete. M’imbocco meccanicamente come fossi un bambino senza voglie nemmeno della cioccolata. E guarda te se non doveva venire a piovere, stasera, a Milano, a metà agosto.
Suono a un campanello sordo, e muto. Stasera mangio scondito.

Soundtrack: Al Green – How Can You Mend a Broken Heart

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IL CIELO SUL PONTILE

Esco, faccio due passi – penso – che di solito mi fa bene quando sono fuori casa: svuoto la testa, brucio calorie, libero e raccolgo i pensieri ribelli.
Quest’estate è strana, ma è comunque nomade, almeno per me che finisce che non me ne sto mai fermo, prendo e parto anche per un giorno solo. Faccio serata con i colleghi, non dormo, salgo su un treno di prima mattina e vengo a Jesolo a montare una console, accertarmi che funzioni, fare un collegamento e tornare a Milano ché anche ad agosto c’è bisogno dei supereroi che salvano il mondo.
Esco dall’hotel dalla parte del mare: questa passerella sul retro mi ha sempre affascinato, a due passi dalla spiaggia come casa mia lontana, in Sicilia.
Imbocco il lungomare piastrellato da motivi sinusoidali e mi sembra, come tutte le volte, di ritrovarmi sul sentiero dorato che porta al palazzo del mago, nel regno di Oz. Mi balenano in mente Judy Garland, lo spaventapasseri, il leone, Uomo-di-latta, i tacchetti rossi e Somewhere over the rainbow.
Rallento, guardo la spiaggia, gli ombrelloni sono tutti chiusi con il loro cappuccio colorato in testa, sono arrivato che anche qui è stato brutto tempo. La spiaggia è deserta, il cielo ancora carico di nuvole semi-scure, il mare ha un colore tipo acciaio che non mi mette serenità. Per niente.
Combattuto, affaticato, spezzato, come il rumore del trattore che mi passa a pochi metri per lisciare la sabbia prima che tramonti il sole. Sono io.
Guardo in alto, il mare porta con sé sempre quel fascino del vuoto, incazzato e idilliaco allo stesso tempo, che mi spinge a sollevare lo sguardo sopra la linea di orizzonte e concentrarmi sul cielo, tornare a considerarlo, dargli una parte importante in tutto questo.
Tocco la tasca dei jeans che nasconde il telefono, infilo due dita e lo tiro fuori: guardo l’ora. Sblocco. Apro la fotocamera. Inquadro. In alto, poi in mezzo, poi in basso. Non mi convince. Scendo in spiaggia. Mi avvio verso il pontile, lo stesso delle notti a guardare il faro e la luna dell’anno scorso e ridere di cose stupide e romantiche quasi fino all’alba. Una coppia gioca a racchettoni poco distante, sul bagnasciuga. La borsa di stoffa a righe colorate di lei è abbandonata sulle prime tavole di legno che si staccano dalla sabbia.
Continuo dritto, la scanso e la supero, ancora tre passi, un cartello davanti ai miei piedi mi ferma, dice che è rischioso proseguire ché il pontile è pericolante.
Lo calpesto, strafottente, avanzo di qualche metro. Mi inginocchio. Guardo attraverso la lente. Scatto. Ancora. E ancora. Poi mi alzo e torno indietro.
Proseguo per il sentiero fino al chiosco di amici che continuano a fare il gioco di chi è più veloce ad urlare «oggi offro io!» ogni volta che mi vedono apparire. Sorrido rumorosamente, mi avvicino e mi siedo sullo sgabello bianco più comodo, che è il mio, metto un biglietto sul bancone e offro io, a sto giro.
«Ciao cattivo ragazzo! – esclama la ragazza coi capelli legati alti e gli occhi da cerbiatto, mentre prepara due cocktail – Bentornato!» e accenna a uno sguardo furbo e fulmineo. Uno dei suoi. La ragazzina bionda, invece, la cameriera nuova dell’anno scorso, dietro di lei, mi fissa e sorride, muta, come se avesse visto un fantasma dopo mesi.
Freddiamo i bicchieri con l’acqua ghiacciata, ridendo ch’è giorno di festa ogni volta che ritorno qui, spilliamo la bavarese e brindiamo a un’altra estate, anche se quella di quest’anno non arriva ancora. Ricordiamo insieme ch’era degli stessi colori, il cielo, il giorno in cui lasciai Jesolo l’anno scorso. Forse un cielo triste, forse un cielo di cambiamento. Poi inizio a sorseggiare, alzo la testa e affogo nella birra, mentre ascolto in silenzio la poesia delle onde.

Seduta sul molo mi lascio cullare dalla brezza marina e dall’infrangersi delle onde sulla scogliera.
Ormai il tramonto ha inghiottito anche gli ultimi raggi di sole e lì, sola sul molo insieme ai miei pensieri, guardo l’immensa distesa del mare come se cercassi quelle risposte che io non riesco a trovare.
Soltanto i gabbiani accompagnano i miei pensieri poiché liberi di volare scrutano da parte mia se dalle profondità del mare è in arrivo una qualche risposta.
Tutto tace, tutto è silenzio e quando la schiuma delle onde lambisce il molo capisco che è ora di andare,
tornerò la mattina seguente.

Silvia Grandi

Soundtrack: Editors – Camera

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A PROPOSITO DI

Davide si infilò la felpa più pesante che aveva e si sedette a gambe incrociate sul balcone. Guardava le nuvole nere, fuori, nella notte. Accarezzava il gatto che aveva trovato, abbandonato, come se stesso. Sapeva che le sue cure non lo avrebbero salvato.
«Anch’io continuerò solo ad aspettare, – pensò – Proprio come questo gatto che aspetta di morire e non ha nemmeno un nome».
E allora, forse, invece che a Dio, Davide cominciava a credere nel destino. Al fascino indescrivibile del caso e delle coincidenze. Che potevano dipingere un affresco impressionante, di mille colori. Un’aureola. E in centro noi. Vittime, privi della possibilità di decidere, ma propensi all’errore. E inclini al rischio di vivere una vita in cui i giorni siano tutti l’uno uguale all’altro.

Elena Chiara Mitrani

E’ notte, l’ennesima in cui l’orologio è già troppo avanti rispetto al mio solito e la sveglia è già pronta a suonare prima che prenda davvero sonno. Sono giorni che non dormo praticamente più, che arrivo a lavoro ch’è appena diventato giorno e ne esco ch’è appena diventato sera. Giorni che torno a casa che mancano due o tre ore e devo rimettermi in piedi a vedere ancora l’alba. Forse l’unico di quei momenti che riesco ancora a godermi. Però ci sono piccoli dettagli di cui godo in quest’ultimi tempi, dettagli che partono al risveglio e finiscono qualche ora dopo, dettagli che hanno sguardi, parole, trecce, pensieri e movimenti ancora rallentati dal sonno. Non posso fermare il cervello, non posso fermare i pensieri perlomeno. Non posso frenarli, i miei, ma vorrei poter scavare profondo in quelli di chi osservo. Non mi accorgo mai di come il mio sguardo possa cadere su qualcuno, se mosso da interesse, affascinato, corrucciato o semplicemente curioso. Spesso non mi rendo conto dell’incanto di uno sguardo che si posa su di me, lo vedo e basta, lo raccolgo e lo chiudo nel cassetto di ciò che mi piace e mi rende geloso. Un po’ come quando mi salta in mente il pallino e penso alla vita. Senza contare che le nostre vite cambiano in fretta, in queste notti, così; queste notti abitate dagli incubi e dalla nostra incoscienza, che sono gli uni le nostre paure più pesanti e l’altra i desideri più proibiti.
Ho ripreso a leggere il romanzo di Elena, negli ultimi giorni, era una promessa fatta e la manterrò. Lo sto riscoprendo come in una serie tv guardata a piccoli episodi. Lo leggo appena sveglio mentre corro a lavoro e mezzo stanco quando rientro in casa. Lo leggo sottoterra, mentre mi sposto veloce e lo stoppo forzatamente quando riemergo in superficie, per guardarmi attorno e non perdermi l’attimo.
Ieri mattina c’era il cielo di vaniglia, su Milano, quel cielo carico di nuvole rosa che macchiano l’azzurro leggero dell’alba e che portano lente la pioggia. C’era quel fresco che s’infila sotto la felpa che fa piacere e che non è per niente tipico di agosto. Mi sento a metà, forse un po’ stanco. A metà coi pensieri, i desideri, e qualcosa che non riesco a definire o a dare un nome. Però so che l’aspettavo, questo senso di vuoto in me, che sarebbe dovuto arrivare per farmi cambiare. Come il cielo di vaniglia può trasformare una giornata di quiete in una tempesta.
Mi fermo a due passi dal portone d’ingresso della radio e mentre cerco il badge in borsa, ravanando alla cieca, alzo lo sguardo e fisso sventolare appena la bandiera degli Stati Uniti. Penso alle partenze, ai viaggi e ai posti lontani in cui adesso me ne andrei. Improvvisamente mi viene ancora voglia di quei dettagli e di quegli sguardi ancora rallentati dal sonno. Forse ricomincio a credere nel destino. Al fascino indescrivibile del caso e delle coincidenze.

Soundtrack: U.N.K.L.E. – Lonely Soul (feat. Richard Ashcroft)

vanilla sky Milano

 

FACCIO IL GIRO DEL QUARTIERE

Il mio amore è Hiroshima. Vedete i danni che può causare la passione: si arriva quasi a citare Marguerite Duras.
Guardo una mosca che sbatte contro la finestra della mia camera e penso che è come me: c’è un vetro fra lei e la realtà.
La doppia vita è il lusso degli schizofrenici. […] E’ finita. È. F.I.N.I.T.A. E’ incredibile che io possa scrivere queste sette lettere così facilmente, mentre sono incapace di accettarle. A volte mi capita di avere crisi di megalomania: se lei non mi vuole, mi autoconvinco, allora io non la amo più! Lei non è alla mia Altezza? Peggio per lei! Povera scema! Ma questi sussulti d’orgoglio non durano a lungo perché non ho un istinto di sopravvivenza abbastanza sviluppato.
Vi prego di scusarmi, gli scrittori sono persone lagnose, spero di non annoiarvi troppo con il mio dolore. Scrivere è lamentarsi. Non c’è una gran differenza tra un romanzo e un reclamo alle Poste.

Frédéric Beigbeder

Ci sono giorni in cui mi sveglio spento, e tutto sommato provo a starci dentro. E’ la prima frase che mi è venuta in mente, non perché io abbia in mente Omar (Pedrini ndr) anche se effettivamente l’ho rivisto da poco in radio ed è stata una piacevole sorpresa. Forse però me la canto in testa per giustificare quell’immagine di me allo specchio, con gli angoli della bocca inclinati verso il basso e le sopracciglia aggrottate che disegnano una faccia triste, come a farmi sembrare quasi cattivo.
In realtà penso di essere arrabbiato davvero. Arrabbiato con me che ho mille cose da fare e altrettante migliaia che si intromettono all’ultimo secondo ma sembrano avere la priorità su me stesso, sulla mia vita privata e quasi sul mio respiro. Arrabbiato perché non riesco a ritagliare i miei momenti. Non suono e non scrivo più, e questo però lo so che è l’estate, maledetta, che brucia via silenziosa ogni possibilità così come senz’avvertire scotta le spalle che poi non ci dormi più la notte per una settimana.
Accendo il computer ché magari mi svago un attimo, fuori inizia a far buio ma non ho intenzione di alzarmi da qui per schiacciare un interruttore. Lascio che le pupille si dilatino come negli occhi dei gatti per guardare bene anche al buio più pesto, come facevo di notte da piccolo nei boschi ai campi dei boy scout. Inciampo negli articoli, leggo ancora di Giorgio (Faletti ndr) e sbuffo. Tolgo le mani dalla tastiera e dal mouse e stringo il pugno. Voglio avere il mio ricordo della gente morta, non essere tartassato da mille articoli. Io Giorgio me lo ricordo con il suo maglione a dolcevita nero a maglie larghe e la barba bianchissima, che ride e mi prende in giro per la mia pignoleria nel sistemargli il microfono davanti alla faccia prima di iniziare l’intervista in diretta. Chiudo la finestra e ne apro un’altra. A ottobre esce il nuovo album dei Pink Floyd. Senza Richard Wright. Mh. Lagnoso, ancora una volta. Sono un pianista, perdonatemi, e sono dettagli a cui io devo pensare, anche se sto finendo per pensare a persone morte una dopo l’altra. Forse sono davvero arrabbiato con me, penso, oggi non mi sopporto. E adesso ho anche voglia di prenotare subito quel disco.
Mi alzo, arrivo a prendere Wish You Were Here e lo metto su. Schiaccio play, volume basso. Prendo le chiavi e mentre la musica cresce io esco di casa. Mi chiudo il portone dietro le spalle. Scendo in strada e inizio a camminare. Faccio il giro del quartiere. Non c’è anima viva, solo qualche faro che anticipa le macchine che girano nelle vie accanto. Sono tutti a San Siro ad ascoltare Vasco.
Pur non sentendolo, canticchio nella mia testa Shine On You Crazy Diamond, anche mentre risalgo per le scale fino al piano di casa, dopo appena tredici minuti. Entro in casa ed è appena partita Welcome to the Machine. Ne avevo tradotto il testo una volta e ne ero rimasto colpito. Alcune delle frasi le ho ancora fisse in testa. Benvenuto figliolo, benvenuto nella Macchina. Cos’hai sognato? D’accordo, te l’abbiamo detto noi cosa sognare. Hai sognato una grande star, suonava una splendida chitarra. Mangiava sempre allo Steak bar.
Ho sempre immaginato la Macchina come la città, il mostro che mi risucchia tra gli ingranaggi complessi di ogni giorno. Come una sfida uomo-androide ancora più complessa del finale di Matrix. La città-macchina per me è l’incanto, e non è un incanto di fata come nei sogni di bambino con mostri, ranocchi e principesse. E’ il modo in cui ci si può sentire vivi all’interno della complessità di ogni giorno.
La città incantata è il mio letto, di notte, e lei ci dorme incastrata tra le mie braccia, mente con le gambe si fa largo tra i sogni. E vorrei esserci anch’io. Lì dentro. Adesso.
Mi faccio strada in silenzio tra le vie strette per non svegliarle entrambe, sia lei che la città. Finché la nebbia non si sarà alzata e le prime luci spuntate dietro i monti che sembrano lontani miglia, me ne starò zitto a guardarle dormire. Così.

Soundtrack: Pink Floyd – Welcome to the Machine 

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SOMMA DI EMOZIONI SDRAIATI SULLA LUNA

«Com’era essere sposati?»
«Beh, di sicuro è difficile ma dev’esserci qualcosa di bello nel dividere la vita con qualcuno»
«Come fai a dividere la vita con qualcuno?»
«Siamo cresciuti insieme. Leggevo quello che scriveva per i suoi master e la sua laurea. Lei leggeva tutto quello che scrivevo. Avevamo molta influenza l’uno sull’altra»
«E come l’hai influenzata?»
«Veniva da un ambiente in cui niente era mai abbastanza. Ed era una cosa che la opprimeva molto. Ma nella nostra casa ci piaceva sperimentare le cose, anche in caso di fallimento, ed eravamo eccitati a provarci. Ero liberatorio per lei. Ed era eccitante vederla crescere. Siamo cresciuti entrambi, e cambiati, e andati avanti. Ma è stata anche la parte difficile, crescere senza allontanarsi, cambiare senza spaventare l’altro. Mi ritrovo ancora a parlare con lei nella mia mente. A rivangare vecchie discussioni o a difendermi contro qualcosa che aveva detto su di me.»
«Sai, so quello che vuoi dire. L’altra settimana ero triste per qualcosa che avevi detto sul non sapere cosa significhi perdere qualcosa…»
«Mi dispiace per quello.»
«…No, va bene, tutto ok. E’ solo che mi sono ritrovata a pensarci un sacco e ho capito che, semplicemente, lo ricordavo come fosse qualcosa di sbagliato in me. Ed era quello che raccontavo a me stessa, che ero inferiore, in qualche modo. Non è interessante? Il passato è solo una storia che ci raccontiamo.»

Her (Spike Jonze)

Finché avrai una storia da raccontare non te ne starai a bocca chiusa. Avevo sentito una frase del genere tanto tempo fa, in un film, e poi l’avevo ritrovata in un racconto. Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla. Suona come una minaccia, forse, ma in fondo è vero. Ciò che raccogliamo ogni giorno diventa un pezzo di intimo in più che mettiamo nel bagaglio di questo viaggio. E per bagaglio intendo proprio valigia, e per intimo intendo un pezzo di mutanda o un calzino, spaiato ovviamente. Gli ostacoli più forti in questa storia sono sempre due, se ci fate caso: la timidezza, ovvero il grado di rimanere zitti di fronte a qualsiasi cosa ci accada intorno mentre il nostro stomaco si contorce come un boa costrictor attorno alla preda, e le sensazioni, cioè il modo in cui reagisce la nostra pelle: diventa rossa, a pallini come quella delle oche, emana sudore come se piovesse, sbiadisce fino a diventare di quella tonalità verde evidenziatore, proprio poco prima di cadere, per terra, con tutto il corpo. Collasso o vomito. Ed è sempre colpa dello stomaco.
Non c’è nulla da fare, ci innamoriamo e ci odiamo con lo stomaco, poi deleghiamo il cervello di fare le cagate, tipo prendere e fuggire via, di punto in bianco, o tirarsi dietro piatti e bicchieri o ancora saltarsi addosso in mezzo alla gente. Come puoi non raccontare questa storia, poi? Il passato, quello, è solo la storia che ci raccontiamo. Il presente, questo, è il mezzo attraverso il quale lo facciamo, il raccontarci la storia. E non c’è timidezza e collasso che tenga, perché basta uno sguardo, a volte, una parola infilata nel posto giusto delle nostre teste distratte, che lo stomaco si spalanca e vomita la parte interiore di ognuno, e spalanca la bocca per raccontarle, le storie, quelle magliette, mutande, calzini che abbiamo lasciato per strada.
Eppure ci ritroviamo spesso a pensarci, a tutte queste storie, che potremmo quasi scriverci delle canzoni, tante storie da raccontare e qualcuna da vivere, adesso. E’ comunque uno strano modo di dividere la vita e ripartirla nei giusti cassetti, aprirli un paio per volta al massimo e recuperare i vestiti che ci servono per ripartire, stavolta, ché ogni abito è un momento e indossarlo più volte non vuol dire di certo volerlo ripetere ma trasformarlo, arricchirlo di sensazioni. E’ automatico, se ci pensate, ricordarsi che questo vestito l’abbiamo messo per la festa di tizio, ma anche quella volta che in piazza cantava caio e per quella serata in cui sono uscito con sempronio. Addizioni. Somma di emozioni che diventano ricordi, quei ricordi che poi non puoi fare a meno di raccontare, anche in solitaria, davanti allo specchio, mentre asciughi i capelli dopo la doccia alla sera o fai la barba al mattino presto. Nel primo caso la urli, la storia, per scavalcare con la voce il rumore del phon altrimenti non ti ci senti. Nel secondo caso invece te ne stai sottovoce, perché non è ancora l’alba e non vuoi svegliare lei, che dorme beata, di là, dopo aver sopportato i tuoi desideri mal sani tutta notte.
Non posso non pensare a una donna, se parlo di ricordi, di storie, di quelle raccontate e di quelle scritte, ché la donna è un po’ la mia malattia ma è l’insieme delle mie storie, l’insieme delle mie mutande e dei miei calzini: quelle di incontri nati un po’ per caso e di quelli voluti, di quelli rincorsi di giorno e di notte che non fanno sentire l’affanno e la stanchezza di ore di lavoro. Storie che non mi appartengono e in cui mi sono infilato, perché chi non le insegue, le emozioni, può vivere tutte le storie del mondo, ma non avrà il gusto in bocca per ricordarle, per raccontarle, e non avrà il tempo di viverle, neanche in futuro, forse perché questo tempo l’ha già perso in passato.
E allora va’ e prenditele queste emozioni, mi dico, per un giorno, anche solo un’ora e arriva al punto di volerne ancora un altro e un altro ancora, di attimo in più, quando il tempo di questo incontro sarà scaduto. Siamo sdraiati sulla luna, è un pomeriggio perfetto, la tua ombra mi segue tutto il giorno rassicurandomi che io stia bene e siamo a milioni di miglia di distanza.

Soundtrack: Karen O – The Moon Song

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GRILLI NELLA TESTA

Basta! Che poi finisci per ingozzarti e, per non rischiare di soffocare, le sputi tutte, le parole che stai mangiando.
Si vede lontano un miglio che continui a pensarci, che fai come un pazzo e continui a leggere come se dovessi morire stasera. Guarda che non scappa mica eh. Dosati. Fermati. Respira, poi ricomincia.
Dai, abbandona quella scrivania! Va’ a casa! Riposati, che anche oggi hai salvato il mondo. Eroe.
Vuoi il mantellino rosso? Vuoi una hostess hawaiana che ti aspetti all’uscita e ti metta al collo una corona di fiori mentre sculetta una hula?
Dai, su. Guardami almeno, che sembri solo scemo così concentrato su quelle pagine con quel sorrisetto che ti spunta ogni tanto. Non diventare patetico.
Cosa fai? Ah, scrivi pure? Riesci ancora ad impugnare una penna e buttare giù due righe d’inchiostro sulla carta? Che romantico che sei, vecchio stile proprio. Non ne fanno più come te. Tsè!
Chissà che avrai da scrivere, poi, di così importante che manco mi caghi.
Cosa c’è? Cosa vuoi? Mi porgi il foglio? Uh! Ahhh! E’ per me? Dai? Pff, pure le letterine mi scrivi ormai. Vediamo… Oh! Ops. Mh!
Oooooohhh!

Se la coscienza fosse la pura coscienza dell’amore (come lo vide Rilke), allora il nostro amore sarebbe immediato e spontaneo come la vita stessa. (Thomas Merton)

E non fu questo ch’egli scrisse su quel biglietto, sicché d’amore comunque parlava, in quelle tre parole accennate, se è così che amore può essere definito in quanto sentimento, che parte dallo stomaco e finisce dentro al naso e da lì su per ogni area del cervello. Continuava a pensare e sentirne la mancanza. Se provava a sbilanciarsi col corpo non sfiorava più i suoi fianchi o le sue braccia ma solo aria, tutt’attorno. E in tutto questo vibrare leggermente, da seduto sulla sedia, non sentiva una mancanza di quelle nostalgiche che rattristano gli innamorati cronici, bensì il desiderio di un incontro ancora, in solitaria, cui è permesso solo ai rumori estranei di esserne spettatori.
Alla fine smise di leggere, arrestò il computer, sollevò la sacca verde sulla spalla destra, poggiò gli occhiali neri sul naso e si tuffò in metropolitana.
Aveva la Coscienza pulita, sebbene fosse una coscienza chiacchierona e rompicoglioni.

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LE DONNE CHE NON AMANO I FIORI

L’unica cosa che mi viene in mente è di ricorrere a un gesto, di nuovo. Così mi chino, tiro fuori le mutande dal mucchio di vestiti e me le infilo. Passo poi alla maglietta e ai jeans, ma senza tirare su la cerniera. Infine vado a verso il lavabo, prendo un pentolino e apro l’acqua.
«Mah, meglio preparare un tè,» dico con una voce che trema appena. In qualche modo sento di doverla risarcire perché resti mia amica e perché consideri il mio atto come una semplice caduta di stile, un incidente di percorso.
[…] Nel caso in cui Anna si mettesse a fare le valigie di colpo, per andarsene da qualche altra parte a scrivere la tesi, le direi senza esitare un istante: «Rimani, ti prego».
Arrivo a pensare che, chissà, per capovolgere la situazione, basterebbe una pianta (questa delle piante è un pensiero che mi viene in automatico). Per esempio, se cogliessi dal balcone un giglio bianco per lei…
«Sai dove sono le bustine del tè?» le domando con un tono che è tornato normale. Metto il pentolino sul fornello e accendo il gas. Continuo a dare le spalle alla madre di mia figlia; e poiché credo che sia in piedi vicino al tavolo, parlo in quella direzione. All’improvviso, però sento che è dietro di me, che il suo corpo preme contro il mio: un brivido bollente mi sale su per la schiena. Anna mi sfiora la spalla, il gomito, poi mi abbraccia.
«Scusa per prima, se sono scoppiata a ridere. Non era per te, ma per la gioia».
Poso in fretta la teiera, spengo il fuoco e seguo Anna in camera da letto. Sono più veloce di prima a spogliarmi, e non indugio, anche perché i pantaloni, in parte sono già sbottonati. Non sono neppure sicuro che le tende di velluto siano tirate bene: s’intravede il cielo serale, striato di nuvole. E’ di un rosa sorprendente.

Audur Ava Ólafsdóttir

Parto a leggere da qui, nel giro di mezz’ora arrivo alla fine, che vorrei tanto citare ma evito lo spoiler anche perché non va a finire tutto rose e fiori come può sembrare. E mi sono già contraddetto una volta.
Oggi improvvisamente il cielo s’è coperto ed è iniziato a piovere forte, di quelle scrosciate assurde che sembra più un temporale di fine estate inizio autunno, di quelli che voglio tuffarmi dalla finestra e iniziare a nuotare come fosse tutta un’immensa piscina, questa città.
Ho voglia di leggere, di finire questo racconto e di iniziare quello di una cara amica, che ha appena pubblicato e ho visto su internet. Io però lei non la vedo da anni, quando, prima che partisse per l’Europa, curava la redazione per le mie trasmissioni in radio e sorrideva sempre, timida e di poche parole, ma sorrideva.
Esco di casa, perché mi sta troppo stretta, e vado a fare due passi sotto l’ombrello. Una mano tiene il bastone e l’altra la tavoletta grigia che sputa fuori le pagine del libro. Mi fermo al semaforo e guardo dall’altra parte della strada: il chiosco del fioraio è aperto anche oggi, anche sotto la pioggia. Mi avvicino e mi fermo a guardare le piante che espone sul davanzale, mi piacerebbe vedere qualcosa di tanto colorato invece sono tonalità banali, fiori che riconosco facilmente e io di fiori non me ne intendo quasi per niente. Ne ho letto spesso a proposito ma alla fine non mi sono mai più di tanto interessato.
«Ti serve qualcosa?» mi dice l’indiano uscendo dal gabbiotto verde scuro.
«No, guardavo soltanto, non c’è tanto ma mi ha attirato comunque l’insieme dei profumi» non sto mentendo, è vero che stavo inalando un mix di profumi ma è dovuto alla giornata uggiosa e alla pioggia che estremizza tutti gli odori come farebbe un amplificatore con il suono di uno strumento elettrico.
«Sono i fiori che comprano gli innamorati!» mi risponde il tipo, con un sorriso e un fare un po’ romantico.
Ok, sorrido anch’io e prendo la mia strada, infilandomi nelle viuzze del parco. Il mio amico venditore stava iniziando a farneticare.
I-fiori-che-comprano-gli-innamorati. Eppure non ho tanti ricordi di fiori e di innamoramenti. Ci penso mentre cammino verso la metropolitana, che i profumi raccontano storie, a volte sono più bravi loro con gli odori che noi che le scriviamo con le parole. E in effetti pare che alle donne dei libri e dei film piacciano i fiori: perchè sono esseri, delicati e fragili, ma anche pungenti e a volte velenosi, perché richiedono una cura particolare e le donne si rispecchiano in essi. Questi fiori sanno essere di mille colori come le donne in base alle loro giornate, ai loro sentimenti, alle gioie o alle tristezze, eccetera eccetera. Internet dà questa strana spiegazione poetica che non mi convince. Non mi convince anche perché nei paragrafi successivi si parla solo di rose rosse e rose blu. Il classico e l’alternativo. Il diavolo e l’acqua santa. Mi viene in mente quella sera in cui passeggiando per Piazza del Popolo a Roma, sotto la pioggerellina maledetta, un venditore ambulante iniziò palesemente a dichiararsi alla ragazza con gli occhi stupendi che stava al mio fianco, cercando di infilarle una rosa dal gambo corto in tutte le tasche del giaccone mentre entrambi sbraitavamo ripetendogli che «no, non stiamo insieme, non siamo innamorati, non vogliamo rose, inutile che ce la regali» e lei era anche quasi infastidita. Allontanandoci cercai di sorridere per spezzare l’imbarazzo e lei guardandomi disse «Che poi a me non piacciono i fiori. Soprattutto le rose. Sì, apprezzerei il gesto ma poi, che me ne faccio di un mazzo di rose da portare in giro, sistemare a casa? No no no! Se dovesse essere un fiore che sia almeno qualcosa di diverso dal solito».
«Non ti piace nessun tipo di rosa?» le avevo chiesto incuriosito.
«Forse gialla! Vuol dire… amicizia, vero?» aveva detto dopo averci pensato un po’ su.
«Ahi. Gelosia!» dissi ridendo. E mi piace scoprire dai piccoli pensieri i più grandi dettagli delle donne. Lei fece un secondo di silenzio per poi cambiare discorso mentre la pioggia intanto aumentava.
Chi si innamora compra i fiori per i primi appuntamenti (che comunque io trovo scontato), chi è già innamorato poi non lo fa più. Forse perché cerca di coltivare l’orto per poi raccogliere i pomodori e farci una buona insalata per cena. Non è vero che le donne amano i fiori. Almeno una gran parte. Le rose poi, quelle che conosciamo bene, sembrano essere diventate troppo convenzionali. Quella sera non parlammo più di fiori, né di gelosia, né di uomini e donne della nostra vita attuale; delle storie del passato però, quelle che non c’entrano coi fiori, quelle sì.
Le donne che non amano i fiori amano i racconti, si siedono in terra e li ascoltano, passeggiano e guardano dritto negli occhi, in silenzio, ignorando la strada davanti, e viaggiano col pensiero. Sembra come che ciò che calpestino sia un’altra via e la loro destinazione sia l’ultima pagina del libro che stai scrivendo a voce alta e le stai dedicando in quel momento. Amo la donna che guarda curiosa e domanda con lo sguardo, che non si aspetta nient’altro che un mazzo di racconti da annusare, da spinare, stelo dopo stelo, e passare dalla sua alla mia mano, quando arriva il suo turno di parlare.
Arrivo a destinazione, scendo dalla metropolitana e mi ritrovo sorpreso sotto la radio, anche se oggi è domenica. Inconsciamente ho fatto la strada che percorro tutti i giorni, mentre sono ancora assonnato e con gli occhi chiusi, alle sei del mattino.
Salgo, mi spoglio e mi fermo a chiacchierare con le donne del primo piano che hanno le loro storie divertenti da raccontare: storie di torte di compleanno, candeline, allarmi antincendio scattati poche ore prima e nessun fiore di mezzo. Rido, mi fermo a osservarle nei loro lavori, mi godo la radio nel silenzio del weekend, lontano dal caos di tutti i giorni, come piace a me. Poi recupero l’ombrello umido, saluto e torno indietro verso casa.
Inizio a leggere il racconto nuovo, mi ha colpito il titolo, la copertina, poi ho notato che il nome dell’autrice non mi era per niente nuovo. Lo compro, lo apro, leggo le prime due righe. Scatto una foto della copertina e lo invio a lei. Non lo faccio mai ma sì, adesso pretendo una dedica e gliela chiedo.
«Al mio mago dei suoni preferito» le viene fuori spontaneo.
Mi commuove, la mia amica autrice che a me è sempre piaciuta un sacco per come sorrideva timidamente. Sono felice, ho voglia di scoprire qualcosa e forse non ne so ancora il nome. Si chiama curiosità, che mi dicono sia donna. Allora mi piace ancora di più, non le resisto.
Pagina uno, che poi non è una pagina. La tavoletta grigia mi dice solo unopercento. Avvicino il naso al display e no, non fa il solito odore dei libri nuovi. Semplicemente non fa odore. Se i libri dovessero essere fiori questo allora dovrebbe essere un fiore finto? No, non lo permetto. Il profumo delle parole sta nello sciogliersi una dietro l’altra: sono odori che immaginiamo, personaggi che conosciamo ad occhi chiusi e storie, le loro, che ascoltiamo nella nostra testa, senza che facciano rumore alle orecchie. Forse sono come quelle donne che non amano i fiori ma non aspettano altro che il momento in cui gli si presenta davanti agli occhi, e a tutto il corpo, una nuova storia da gustare.

Soundtrack: Shlohmo – Seriously

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